La lingua che abitiamo

La lingua che abitiamo

“All’inizio, non c’era che una sola lingua. Gli oggetti, le cose, i sentimenti, i colori, i sogni, le lettere, i libri, i giornali, erano quella lingua. Non avrei mai immaginato che potesse esistere un’altra lingua, che un essere umano potesse pronunciare parole che non sarei riuscita a capire. Perché avrebbe dovuto farlo? Per quale motivo?”1

Le parole di Ágota Kristóf incorniciano la situazione in cui si trova la maggior parte delle persone: nascono e crescono in un contesto dove la madrelingua è un’esperienza immersiva. Per me, invece, la lingua è sempre stata un luogo di confine. O meglio, il confine non era determinato dallo spazio, ma dalla lingua.

Le persone mi dicono che parlo bene in italiano, quasi senza un’inflessione, quasi in dizione. La realtà è che, quando parlo ad alta voce, alcuni suoni si ingarbugliano, la lingua non tocca i punti giusti, le labbra non si muovono come dovrebbero. “Devi aprire bene la bocca quando pronunci le parole in italiano” – mi spiegavano quando ancora stavo traslocando da una lingua gutturale i cui suoni sembravano uscire direttamente dalla laringe – “Voi tenete le labbra incollate, l’italiano è pieno di suoni aperti”. L’italiano è come parlare con la bocca piena. Insomma, quando l’italiano mi diventa una lingua nemica, torno al 19832.

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