Casa: sostantivo, femminile, singolare

Casa: sostantivo, femminile, singolare

Il 18 agosto del 1983 il tetto di palme di cocco della casa della mia famiglia materna se ne vola via. Mia madre ha tredici anni, e non è mai stata testimone di un monsone così violento. Le notti successive le avrebbero trascorse sotto il fruscio dei manghi nel giardino sabbioso di mia nonna,  — lei, i genitori e le cinque sorelle —  per paura che le quattro mura potessero crollare su quel che restava delle loro vite. Sotto quegli alberi, sdraiati sui paduru ammorbiditi dalla vecchiaia, saremmo tornate a dormire alla vigilia della sua partenza per l’Italia, molto tempo dopo: si sa che si ritorna a dire addio ai luoghi dove si è diventati se stessi. Frattanto, la casa regge ai loro dubbi, eppure, in quella sere mette radici in mia madre la paura di non avere un luogo a cui appartenere. Avrebbe continuato a incubare quel pensiero, per poi trasmettermelo come una malattia che ancora oggi mi debilita.
Era venuta su guardando torva le risaie che erano state mondate da una generazione per la successiva affinché in suo padre potesse strisciare l’idea di metterle a garanzia dei propri debiti. Le aveva perse tutte, e ora insime alle sorelle — le divise bianche della scuola appese ai rami più alti, il chittaya attorno al corpo nudo — cercano, lavandosi nel fiume, dei pesci magri da friggere, mentre qualcun altro si mangia il loro riso. Era l’anno del Luglio Nero: si stima che le violenze nel paese lasciarono centomila Tamil senza una casa.

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